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SGUARDI POETICI. Brevi riflessioni sul senso della poesia ispirate da un testo o da una voce letteraria
Recentemente ho avuto la fortuna di leggere le poesie di Jon Kalman Stefansson raccolte nel volume La prima volta che il dolore mi salvò la vita, Iperborea, 2021.
Nella prima parte del libro, Stefansson traccia alcune note autobiografiche nelle quali esprime con frasi secche e lapidarie quale sia il significato della poesia e quale sia il rapporto che essa intrattiene col singolo e con la collettività. Poche frasi che hanno ispirato alcune mie riflessioni, perché, con i poeti e le poesie, bisogna essere in costante dialogo.
SEI MODI DI DEFINIRE LA POESIA
“La poesia è la capacità di guardare oltre. La poesia ha la capacità di smascherare le opinioni e i luoghi comuni del suo tempo.”
La poesia anticipa i tempi stando fuori dai tempi. Sa essere moderna e insensibile ai cambiamenti, progressista e conservatrice allo stesso modo. Le sue parole sono parole di verità e quindi non possono essere gradite ai potenti. Non sanno adeguarsi ai costumi dell’epoca, buoni o cattivi che siano. La poesia è come un figlio illegittimo: non è di nessuno ed è di tutti.
“La poesia costringe a dubitare.”
La poesia apre prospettive diverse sulla realtà e conseguentemente costringe a rivedere le proprie convinzioni.
“La poesia è un gatto che non si lascia mai addomesticare del tutto.”
La poesia non è governabile come la prosa. Non scende a compromessi, non si fa comprare con premi e lusinghe. Sfugge talvolta alle stesse mani dell’artefice, tanto è indipendente. Come un gatto.
“La poesia è figlia del suo tempo ma non è legata al suo tempo.”
La poesia ha in sé la qualità dell’universale e dell’eterno. Si esprime in un certo determinato periodo adattandone magari la lingua ma dal punto di vista dei contenuti non appartiene obbligatoriamente a quello specifico contesto storico e culturale.
“La poesia ci mostra un mondo oltre il mondo.”
Dove c’è poesia esiste la possibilità di una diversità, di una divergenza, di uno sguardo diverso sul mondo tanto da aprire scenari anche su altri mondi, ovvero su realtà non visibili dalla nostra dimensione quotidiana.
“La poesia è un’espressione personale; ogni poesia è parte del sé e l’io è parte di essa.”
Non c’è distinzione tra l’io profondo del poeta e ciò che lo stesso scrive. La poesia è materia organica, un prodotto del corpo e dell’anima. Esce da sé per essere donata ma chi la accoglie lo deve fare come se fosse al cospetto di qualcosa di fragile e prezioso, in realtà, perché accoglie dei frammenti dell’anima del poeta: materiale da maneggiare con cura.
Chiara Rantini
ESTASI POST-NUCLEARE. “UNA PASSEGGIATA NELLA ZONA” di Markijan Kamyš
Markijan Kamyš, Una passeggiata nella zona, trad. dall’ucraino di Alessandro Achilli, Keller ed., Rovereto (TN), 2019
Una passeggiata nella zona di Markijan Kamyš, giovane autore ucraino nato nel 1988, è una lettura che intriga, sorprende, conquista pur lasciando spazio a delle pause di riflessione tra un capitolo e un altro. La prima riflessione in realtà è una domanda: quale interesse può spingere un uomo a sacrificare gli anni migliori della propria vita per compiere un simile “viaggio di scoperta” proprio nei luoghi del terribile incidente nucleare del 1986?
Ho cercato una foto di Markijan: è magro, biondo con i capelli sottili, lisci e lunghi, il volto affilato. Il passo successivo è stato quello di leggere alcune informazioni biografiche. È nato due anni dopo il disastro di Černobyl’ da un padre ingegnere atomico che fu tra coloro che dovettero “liquidare” il mostro. Markijan è rimasto orfano di padre all’età di 15 anni. Sappiamo che ha frequentato l’università a Kiev, laureandosi in Storia.
Nella Passeggiata scrive di sé al presente, del tempo in cui vive (tre giorni o un mese, non ha importanza) all’interno della zona proibita ma i riferimenti alla vita passata o anche a quella presente fuori dai confini dell’area contaminata si riducono ad alcuni vaghi cenni alla normalità urbana della capitale ucraina.
Il titolo del libro rievoca in me un’altra nota “passeggiata” letteraria, quella di Robert Walser. Tuttavia la differenza è enorme: se nella passeggiata dello scrittore svizzero il vagabondaggio era finalizzato all’incontro con altre grandi figure della letteratura, nel testo di Kamyš l’incontro è principalmente con se stesso, con quella parte del proprio essere liberata dalle scorie della vita convenzionale. Uscire dal tempo della vita quotidiana, dagli spazi socialmente controllati è sempre stato il tema del vagabondaggio letterario fin dal Romanticismo tedesco, passando per l’insurrezionalismo ambientalista di Thoreau fino alle forme di comunità autarchiche post sessantottine. Oltrepassare il filo spinato che separa la vita reale ma inautentica da quella sognata ma autentica costituisce una specie di rito della soglia (di cui Kamyš è un officiante) documentato nelle maggior parte delle religioni: l’iniziato depone l’uomo vecchio a favore di una nuova identità che vive una sorta di comunione estatica con la natura della zona. Tuttavia, a differenza del pensiero di un pioniere dell’ambientalismo come Emerson, il concetto di natura in Kamyš è più allargato e comprende anche il paesaggio industriale che ha subito il destino dell’abbandono. I palazzi di Pryp”jat’ commuovono per la loro nudità: quelli che erano luoghi di vita umana sono ora territori di conquista di altre specie vegetali e animali. Le foreste, le paludi e con esse i loro abitanti un tempo emarginati come lupi, cinghiali, linci paradossalmente sono le uniche creature sopravvissute al mito del progresso sovietico su cui Kamyš usa parole di scherno.
Nelle passeggiate nella zona riecheggia anche il mito di Ulisse, ovvero di colui che è costretto a viaggiare per ritornare a casa.
La vera felicità è che ci sarà il filo spinato …per andarsene il prima possibile e dimenticare tutto questo orrore. E scappare in qualche posto caldo, scrive Kamyš ed effettivamente il testo ripercorre un bisogno estremo di fuga a cui è necessario, come fattore d’equilibrio, la certezza del ritorno. La dimensione estatica raggiunta dallo scrittore ucraino, moderno sciamano, all’interno della zona proibita non può durare per sempre perché il rischio di perdersi totalmente sarebbe altissimo.
Sarà un nuovo reset. Tornerai a Kiev… Arriverai a casa e ti addormenterai come un bambino. Niente disturberà i tuoi sogni.
Kamyš si definisce un sognatore, forse uno degli ultimi in mondo che deve marciare serrato sotto i colpi frenetici del consumismo. Nella zona non esiste fretta, se non quella data dal fuggire dagli inseguimenti della polizia o dei branchi di lupi.
La trama della passeggiata è di una semplicità imbarazzante: cammini senza fretta e fantastichi su mille cose…Non c’è un motivo per perdersi nella pianura di Pryp”jat’ se non quello di farlo come gesto di ribellione e di riaffermazione della propria libertà e pace interiore.
Qui la mia anima si placa, si tranquillizza. Qui dormire, mangiare, condividere una magra cena a base di scatolette di carne e acqua del fiume contaminato è rispondere ad un’esigenza primaria e riscoprire gli stessi sentimenti che un tempo ebbero gli uomini delle caverne.
Che sia questo il nostro futuro, e Kamyš non sia una specie di profeta?
Chiara Rantini