NESSUNA FRETTA – PAOLA PROSPERI
Malinconia. Un tempo che fugge troppo velocemente e non ci permette di assaporarlo fino in fondo. Appuntamenti mancati con la vita. Queste e altre sensazioni non dissimili regala al lettore la poesia di Paola Prosperi, una poesia fresca, pungente come una mattina di inverno. La nostra autrice non si lascia andare a prosaici sentimentalismi, né a vaghe romanticherie ma affronta i temi dell’amore e della perdita con la precisione di un chirurgo e con la consapevolezza di chi rifiuta le illusioni a buon mercato. Il tempo quotidiano è un ostacolo al ritmo di vita interiore che chiede lentezza, attenzione, cura; nella relazione con l’amato predomina il desiderio, l’autenticità ma spesso questa dimensione non è corrisposta, i tempi sono sfasati, non coincidenti. “Non avere fretta” sembra suggerirci la poetica di questa raccolta: solo nella poesia infatti ciò che non è possibile nella realtà diventa possibile: tutto avviene comunque, anche se in altri tempi e in altri spazi.
È il potere della poesia quello di far accadere l’impossibile, rendendo vana l’inutile corsa del tempo cronologico. La poesia, come ben sappiamo, mira all’eternità.
Paola Prosperi, Nessuna fretta, Porto Seguro, Firenze, 2021
Buchi
Abbiamo buchi nella
maglia dell’anima.
Malinconie erranti
nomadi dolori
e fegati in frantumi –
spezzoni di un film che
non monteremo mai –
registri dei nostri
incubi diurni.
e le comparse distratte
lì
a farsi un gin tonic al bar.
Stoviglie color nostalgia
Nella grande cucina
la nostalgia
stava
sulle vecchie stoviglie
color giallo canarino.
E la poesia
stava nascosta
accucciata
proprio dietro
la mia sinestesia
-ricordo docile d’infanzia complessa- quando vedevo
la musica
che saliva
su una scala di colori.
Stoviglie color nostalgia
ancora mi aspettano
sul ripiano della grande cucina
ogni volta che
chiudo gli occhi
e, stremata, mi assopisco.
Ostrica
Finita l’estate
-di caldo fiato e di luce violenta
Vestita-
l’ostrica, silenziosa e lenta,
richiude i battenti
e sprofonda
nel suo Io più remoto.
Scombinata
Sai,
Io penso di amarti
in quella maniera
un po’ scombinata
di quando si sta seduti
in punta della seggiola
da piccini.
E un po’ si sta per cascare.
E un po’ no.
VIAGGI INTERIORI di Giacomo Zanieri
“Viaggi interiori” è il titolo della raccolta poetica di Giacomo Zanieri. E di viaggi effettivamente si tratta. Non solo interiori. Talvolta anche di viaggi fisici ma in essi vive sempre e comunque una dimensione interiore senza la quale pare impossibile viaggiare. Con la poesia di Zanieri il lettore viaggia soprattutto col cuore attraverso stati d’animo che tutti conosciamo come l’amore, il senso di abbandono, la nostalgia, il sentirsi inadeguato e fuori dal tempo presente. Molte sono le città citate a cui il poeta dedica le proprie liriche: Venezia, Palermo, Napoli e soprattutto Firenze, la città natale. E tuttavia nella poetica di Zanieri, convivono anche molti altri luoghi “sfumati” come la spiaggia, la campagna e le stagioni. Sono metafore dell’esistenza, momenti di passaggio che appartengono al mondo interiore in cui, chiunque sia dotato di una certa sensibilità, non può non specchiarsi. Ecco allora che ne La voce dell’anima, la voce dell’anima è donna e Zanieri ci conduce in un viaggio nell’animo e nel corpo femminili mettendo in risalto la passionalità della scrittura dell’autore, passionalità che è sempre controbilanciata da una profonda dolcezza e da una malinconica lievità.
Maschile e femminile, inizio e fine sono gli opposti che si completano e la buona poesia è sempre una poesia degli opposti.
LA VOCE DELL’ANIMA
Una voce di donna si mischiò al rumore del mare,
la voce salì sempre più,
si alzò un’onda altissima e limpida.
Anche nel silenzio di lei potei sapere i suoi pensieri,
sentii le vibrazioni dell’anima.
Poi lei cantò e parlò,
mi diede boccate d’aria fresca,
fu tanto umana,
mi sollevò la voce della sua anima.
L’ESTATE
Si sdraiava sulla spiaggia
cercando il sole che non c’era,
guardava sconsolata gli ombrelloni chiusi,
cercava segni di vita dell’estate che finiva.
Si tuffava, nuotava nel mare,
c’era l’energia dei suoi vent’anni.
Accendeva il desiderio con il suo corpo bello.
Poi usciva dall’acqua,
in lei c’era l’estate,
cantava mentre ballava,
lei era il sole,
era il mare.
Con il suo costume rosso
mi lasciava l’ultima immagine dell’estate.
PASSATO
Immagina che io venga a prenderti in tram
dalla campagna andiamo in città.
Pensami col vestito grigio,
il cappello in testa,
il profumo sul viso.
E’ una mattina di sole,
luce sulle foglie,
sui poggi, su di noi.
Vediamo ville nel verde,
fattorie, campi di grano,
cavalli che corrono.
Arriviamo a Firenze,
pensa di pranzare insieme,
di camminare insieme,
senza fretta,
gustarci il nostro amore,
pensa di vedere i canottieri che remano nel fiume,
di vedere me giocare a biliardo,
e la sera di andare al cabaret,
e immagina spettacoli,
musica, ballerine
gambe in mostra che si muovono,
e pranzi in famiglia,
gli orologi a cipolla,
l’odore delle cose antiche.
Anni che non ho vissuto
ma che sento dentro,
voltandomi vedo gli strati del tempo,
sono come onde sulla riva,
una dopo l’altra,
bella successione,
piacevole illusione.
Immagina la Firenze dei nostri nonni,
non smettere di pensare,
fai durare questi pensieri,
falli vivere,
falli vivere.
ELEONORA FALCHI – VITA CHE SCORRE
Nel leggere Vita che scorre si avverte veramente un flusso, un flusso di emozioni tradotte in parole che afferra l’anima come farebbe la corrente di un fiume. La poetica di Eleonora Falchi coinvolge il lettore, lo chiama, lo scuote mettendogli davanti i grandi temi della vita: il sentire interiore (la poesia), la salute (intesa come integrità), la dimensione esteriore (gli altri, gli incontri). Spirito, corpo e anima. Ci sono tutti gli elementi necessari per esprimersi al meglio secondo una poetica che procede per immagini, frammenti di vita, emozioni tagliate e cucite sulla vita di ciascuno di noi.
Per questo è impossibile restare indifferenti alla potenza della parola, al grido lirico che ci richiama alle nostre radici, al nostro essere umani in corpo, anima e spirito, essere completi che, in questo preciso frangente storico, si sentono minacciati perché divisi, contingentati, oppressi. La poesia è libertà, è “gioia che si mostra e dolore che si scioglie” e chiede la partecipazione di tutti, “in chi legge il sentire di chi lo ha scritto”.
Alcuni estratti dal volume pubblicato dalla casa editrice Ensemble nel 2020:
OLTRE
Oltre il virus,
oltre la paura
oltre i limiti
oltre il dolore.
Ci sono i sogni,
ci sono spazi
oltre i confini
del corpo
da esplorare.
Ci sono possibilità
per sentirsi vivi.
SALUTE
Voglio tornare a ballare sul mare
voglio tornare a ridere per strada
voglio sentire il mio corpo rispondere
ai desideri senza ostacoli.
Voglio tornare a vivere all’esterno
al tempo degli impegni che si intersecano
al tempo in cui analisi e medicine
non sai nemmeno cosa sono.
Salute rientra in questo corpo
fammi respirare leggera.
QUANDO È POESIA?
È poesia quando
il dolore si scioglie in inchiostro;
compone versi.
È poesia quando
la gioia si mostra:
immagini di parole.
È poesia quando
la luce e l’ombra
si fondono in un testo che suscita
in chi legge il sentire
di chi lo ha scritto.
Il tempo e lo spazio poetico di Iveano Benigni Braschi
IL TEMPO, LO SPAZIO E I GERMOGLI DELL’ESSERE
di Iveano Benigni Braschi
Questo poemetto nasce dal dolore per la scomparsa di Franco Battiato a cui il poeta Benigni rende onore allegando al testo i dipinti del grande maestro della musica italiana. L’opera si compone dell’unione di tre elementi: il sogno, il buddismo e la meccanica quantistica. Benigni ha un particolare rapporto con il mondo onirico. Solo attraverso il sogno infatti, secondo lui, riusciamo ad avere una visione completa della nostra e altrui vita, a raggiungere posti lontani e persone lontane nel tempo. Il sogno annulla le barriere spazio temporali e ci pone in comunicazione continua con poeti, scrittori, artisti di altri tempi secondo un flusso inarrestabile di corrispondenze liriche. La filosofia buddista si lega a questa dimensione di annullamento del tempo, dello spazio e di ciclicità.
Di conseguenza, è facile intuire il legame con la meccanica quantistica poiché secondo questa ottica tutto è divenire, l’universo è in continuo movimento, non esiste materia inerte come d’altronde avviene nella poesia dove la parola è materia plasmabile all’interno del verso.
Alcuni estratti dal poemetto:
…Certo le vie reali
del sogno
portano la coscienza
in profondità,
vanno alla ricerca
delle radici antiche
del mistero della vita.
Tutto può succedere
in questo attimo
di meravigliosa sospensione,
l’irreale appare reale,
il piccolo grande,
il vicino lontano,
ritroviamo posti
e persone
che ci sono care,
ci sembra di essere
a casa…
…Un grande albero
sta nascendo
nella grotta cristallina
del mio cuore,
un albero
dal tronco possente,
dalle radici profonde,
dalle foglie dorate
e delicate…
…Anche l’energia
più sottile partecipa
alla danza del tutto.
Gli atomi e i quanti
si muovono
da un punto all’altro
senza mai fermarsi…
…Universi paralleli
si cercano,
si sfiorano
senza mai toccarsi,
lasciando la loro scia
di stupore
nell’immensità
dello spazio…
MATERA
di Iveano Benigni Braschi
Il poemetto intitolato “Matera” è ispirato da una visita reale alla città tufacea. Il poeta, facendo leva sull’etimologia del toponimo (Matera da “mater”) lo articola come se si trattasse di un dialogo tra madre e figlio. Con le parole della poesia, il lettore è coinvolto in un viaggio che ha il sapore di un ritorno nel grembo materno, nel passato ancestrale personale e cosmico. Esplorare i suoi vicoli è come riallacciare un legame con la cultura arcaica pre-cristiana riscoprendo il senso di appartenenza alla madre terra. Secondo una visione ciclica della vita, la madre rappresenta la nascita e la morte, l’inizio e la fine.
La poesia ha quindi il compito di dare voce al sentimento nostalgico di un’appartenenza perduta a cui la recente standardizzazione e secolarizzazione dell’esistenza ha dato il colpo di grazia. La poesia che va oltre il tempo e lo spazio recuperando ciò che di sacro ancora resta nell’anima dell’umanità.
Alcuni estratti dal poemetto:
…Era come un ritorno,
un ritorno nell’utero
dei sogni
e delle apparizioni,
nella ferita profonda
dell’oscurità,
nel santuario
della pietra vulcanica
dove velate apparivano
figure femminili avvolte
in mantelli verdi e azzurri
che sorridevano
e danzavano attorno
ad un altare di pietra porosa,
a una corona di rododendri,
al fuoco sempre acceso
della notte…
…I Sassi parlavano
al cuore dell’uomo,
svelavano i segreti,
le leggende
del tempo perduto,
le trasformazioni incessanti
della natura…
…E io ti accoglierò
nel mio ventre di pietra,
nella mia culla
di erica e trifoglio,
di verbena e madreselva,
nella casa
della Luna nera,
del Sole di mezzanotte,
ti abbraccerò
col mio corpo di donna
forte e appassionata
che ha attraversato
il fiume dei sospiri
e delle lacrime…
SGUARDI POETICI. Brevi riflessioni sul senso della poesia ispirate da un testo o da una voce letteraria
Recentemente ho avuto la fortuna di leggere le poesie di Jon Kalman Stefansson raccolte nel volume La prima volta che il dolore mi salvò la vita, Iperborea, 2021.
Nella prima parte del libro, Stefansson traccia alcune note autobiografiche nelle quali esprime con frasi secche e lapidarie quale sia il significato della poesia e quale sia il rapporto che essa intrattiene col singolo e con la collettività. Poche frasi che hanno ispirato alcune mie riflessioni, perché, con i poeti e le poesie, bisogna essere in costante dialogo.
SEI MODI DI DEFINIRE LA POESIA
“La poesia è la capacità di guardare oltre. La poesia ha la capacità di smascherare le opinioni e i luoghi comuni del suo tempo.”
La poesia anticipa i tempi stando fuori dai tempi. Sa essere moderna e insensibile ai cambiamenti, progressista e conservatrice allo stesso modo. Le sue parole sono parole di verità e quindi non possono essere gradite ai potenti. Non sanno adeguarsi ai costumi dell’epoca, buoni o cattivi che siano. La poesia è come un figlio illegittimo: non è di nessuno ed è di tutti.
“La poesia costringe a dubitare.”
La poesia apre prospettive diverse sulla realtà e conseguentemente costringe a rivedere le proprie convinzioni.
“La poesia è un gatto che non si lascia mai addomesticare del tutto.”
La poesia non è governabile come la prosa. Non scende a compromessi, non si fa comprare con premi e lusinghe. Sfugge talvolta alle stesse mani dell’artefice, tanto è indipendente. Come un gatto.
“La poesia è figlia del suo tempo ma non è legata al suo tempo.”
La poesia ha in sé la qualità dell’universale e dell’eterno. Si esprime in un certo determinato periodo adattandone magari la lingua ma dal punto di vista dei contenuti non appartiene obbligatoriamente a quello specifico contesto storico e culturale.
“La poesia ci mostra un mondo oltre il mondo.”
Dove c’è poesia esiste la possibilità di una diversità, di una divergenza, di uno sguardo diverso sul mondo tanto da aprire scenari anche su altri mondi, ovvero su realtà non visibili dalla nostra dimensione quotidiana.
“La poesia è un’espressione personale; ogni poesia è parte del sé e l’io è parte di essa.”
Non c’è distinzione tra l’io profondo del poeta e ciò che lo stesso scrive. La poesia è materia organica, un prodotto del corpo e dell’anima. Esce da sé per essere donata ma chi la accoglie lo deve fare come se fosse al cospetto di qualcosa di fragile e prezioso, in realtà, perché accoglie dei frammenti dell’anima del poeta: materiale da maneggiare con cura.
Chiara Rantini
Boris Borisovič Ryžij. L’ultimo poeta sovietico e il primo di una nuova generazione
di Chiara Rantini
Premessa
Quest’anno ricorre il ventennale della morte del poeta russo Boris Borisovič Ryžij.
Molto conosciuto in patria, in Europa e soprattutto in Italia, è noto solo agli addetti ai lavori e a chi s’interessa di letteratura russa contemporanea.
Poeta di un’epoca di transizione, resta ai margini proprio perché difficilmente inquadrabile in un movimento o in una corrente letteraria.
Tradizione e rottura sono le caratteristiche principali della sua poetica ma sarebbe un errore analizzare i suoi testi senza aver preventivamente indagato la sua vicenda esistenziale: il poeta e l’uomo infatti sono elementi inscindibili. Perciò prima di una dettagliata biografia, lasciamo spazio a delle testimonianze di amici poeti (Oleg Dozmorov e Elena Tinovskaja) e critici letterari (Alexej Purin).
“Lamponi e pini, qualche sorbo selvatico
steccati, lapidi, croci e stelle,
poche tuttavia – trovo pochi quadri più tristi
se mi guardo alle spalle.
Ho seppellito qui l’amico. Sono stato più forte di me.
Ma che ci potevo fare?
Che potevo fare?
Se bevessi, sicuramente passerei il limite.
Ma invece non bevo. E un’ondata di vergogna
mi attraversa il corpo. Vergogna di non aver salvato,
protetto, di non aver saputo
dire quello che avrei dovuto dire,
non mi mostravo
gentile, macché,
ero pallido come il gesso,
quando tu sorridevi trionfante e cattivo.”
Oleg Dozmorov
“Quando incontrai Boris all’università, portava un cappotto largo, nero, e un berretto in testa. Era abile nel raccontare bugie, come spesso lo sono i ragazzi. Raccontava in giro di essersi procurato dai mafiosi quel cappotto, taglia 60, e invece lo aveva comprato in un negozio, scegliendo una taglia di molto superiore alla sua. Boris piaceva a tutti, conquistava tutti, era abile e estremo. Viveva tenendo sempre all’erta la membrana acustica e il cuore che gli dettavano i versi. Soffriva d’insonnia fin da quando, bambino, in una dacia di campagna a quattro-cinque anni si era ferito col vetro di un barattolo rotto che gli aveva segnato il viso con una lunga cicatrice verticale sulla guancia sinistra. Da allora aveva cominciato a combattere contro questo trauma, tentando di trasformare più tardi questo segno in un vezzo suo particolare (…) Boris organizzava periodicamente letture con recitazioni di versi propri e altrui che duravano diversi giorni di seguito. Ospitava gli amici a dormire a casa sua. Una volta si svegliò di notte e si rese conto che stava dormendo nel letto lasciandomi per terra. Allora mi disse, da gentiluomo, che era lui a dover dormire in terra e mi cedette il posto. Leggeva furiosamente, da solo e con gli amici.”
Elena Tinovskaja
“Aveva un’idea ben precisa di cosa dovesse essere un poeta: per lui, un poeta è una persona che, con l’aiuto di “parole mortali” sgrezza le melodie banali della vita quotidiana e le innalza verso il cielo.
Gli europei non comprenderanno: paradossalmente Boris R. amava il mondo miserabile e terribile in cui viveva…,
Di lui è stato detto che fu “l’ultimo poeta sovietico” e “il primo poeta di una generazione”.”
Alexej Purin
Biografia
Boris B. Ryžij nasce l’8 settembre 1974 a Čeljabinsk nella Siberia occidentale a non molta distanza dal confine col Kazakistan. Sullo stemma di Čeljabinsk c’è un cammello carico d’oro, un ricordo della Grande Via della Seta che passava di là; “Chelyaba” è un termine che proviene dalla lingua uralo-altaica e nella traduzione significa “principe”. Non siamo più in Europa ma ai margini dell’Asia.
La madre è un medico, il padre un importante geofisico. Boris è l’ultimo nato, da genitori non più giovanissimi e ha due sorelle molto più grandi di lui nate rispettivamente nel 1961 e nel 1962.
La famiglia vive in un bilocale che consiste in una camera-studio con la scrivania di lavoro del padre rivolta verso la finestra e il letto dei genitori, poi c’è un soggiorno dove dormono i tre figli con la nonna materna e una domestica. In più c’è una piccola cucina dove è solo possibile preparare i pasti. La filosofia di vita seguita dalla famiglia è molto semplice: secondo questa filosofia tutte le persone sono buone. In tutta la casa si respira un’atmosfera positiva.
Il padre nonostante sia uno scienziato ama profondamente la poesia; non compone, ma conosce a memoria innumerevoli versi, e in seguito conoscerà anche tutte le poesie del figlio.
Il nonno paterno era un importante membro politico del Partito e proveniva dall’Ucraina mentre la nonna aveva lontane discendenze ebraiche ed estoni. Questo passato mitico della famiglia per Boris ha una grandissima importanza e lascia traccia nel sua visione della vita.
Il primo ricordo traumatico che lo segnerà per sempre è una caduta a 4-5 anni: un frammento di un barattolo scivolato dalla sua mano lo ferisce lasciando un segno di una cicatrice netta sull’intera guancia sinistra. Da questo episodio traumatico, Boris comincia a soffrire di insonnia, un male che probabilmente eredita dal padre. Ma non sarà l’unica caduta per un bambino che si rivela inquieto e allo stesso tempo riflessivo. All’età di undici anni, provando un paracadute fatto in casa con un salto da un pioppo del giardino si rompe una spalla e sei mesi dopo si procura una frattura al polso durante l’allenamento di judo.
Per motivi di lavoro del padre, la famiglia Ryžij si trasferisce a Sverdlovsk, oggi Ekaterinburg, quando Boris ha solo 6 anni. Il padre diventa professore ordinario e direttore dei laboratori di Geofisica all’Accademia di mineralogia e delle scienze russe.
Boris cresce circondato dalle attenzioni degli adulti. Il padre è uno un uomo severo ma molto affezionato all’unico figlio maschio: da lui, Boris eredita l’amore per la cultura e l’irrequietezza che svela una discendenza cosacca.
Le lunghe sere d’inverno trascorrono lente quando gli adulti di casa (soprattutto il padre e la sorella più piccola, Olja) si alternano nel leggere al piccolo Boris non solo le favole ma brani di prosa e sopratutto poesie del ricco patrimonio letterario russo. Boris apprende velocemente e ricorda a memoria i versi dei maggiori poeti classici della letteratura russa.
Nel bambino comincia a rendere forma un’immagine poetica del mondo, fatta di poesia russa, alti ideali, grandi speranze.
Boris compie i primi esercizi in rima all’età di otto anni sotto la guida di sua sorella Olja.
Per un errore di assegnazione, alla famiglia Ryžij viene dato in affitto un appartamento a
Vtorčermet, un quartiere proletario alla periferia sud-occidentale della città, in via Titova.
Vtorčermet è l’acronimo di una sigla che sta per “riciclaggio dei metalli neri pesanti”.
La casa è un classico blocco a più piani nello stile del realismo sovietico, abitazioni costruite in fretta negli anni del governo di Chruščëv per una popolazione in costante crescita.
Ekaterinburg è la quarta città per numero di abitanti della Russia dopo Mosca, San Pietroburgo, Novosibirsk.
Nel 1981 Boris frequenta la prima elementare. Comincia a scrivere poesie molto presto imitando i poeti russi che conosce a memoria. Oltre alla poesia le sue passioni sono il modellismo, scrivere racconti gialli con gli amici, il judo e quando sarà adolescente la boxe oltre alla musica (altro elemento fondamentale per la sua poetica), in particolare si appassiona verso gruppi rock della scena locale come i Nautilus Pompilius, gli Skorpions senza però disdegnare la musica classica.
Alle scuole superiori, è un leader carismatico che organizza feste e anima serate in discoteca. Anche nella boxe è un campione nella categoria juniores dei pesi piuma.
Quando crolla l’impero sovietico, Boris ha 17 anni: di fronte a lui si apre il decennio più problematico della storia recente russa.
Gli anni ’90 sono un periodo di transizione economica, sociale, politica in cui viene demolito dall’oggi al domani un sistema consolidato da anni; al suo posto resta un vuoto che viene rapidamente colmato dalla malavita organizzata, dal consumismo sfrenato, dalla droga e da un innalzamento vertiginoso dell’abuso di alcolici.
Molti amici di Boris si perdono finendo nelle braccia della malavita oppure morti agli angoli delle strade per droga. Boris vive tutto con grande sofferenza a causa del suo carattere irrequieto che si unisce a un animo sensibile e a un’intelligenza straordinaria che lo rende profetico già in giovane età. Tutto questo per lui è allo stesso tempo dono e condanna.
Nel 1991 si iscrive all’Istituto universitario minerario degli Urali dove insegna il padre.
Il 26 dicembre 1991 l’URSS cessa di esistere: il giorno dopo a soli 17 anni Boris si sposa con Irina, compagna di scuola, di un anno più grande di lui. A 19 anni diventa padre del piccolo Artëm.
La fine dell’URSS ha un effetto devastante su Boris come possiamo leggere in molte delle sue poesie e soprattutto gli infligge un senso di smarrimento che si porterà dietro fino alla morte.
In una delle sue ultime poesie infatti scrive:
Qual è la direzione/ per fuggire il mutamento?/Uscire di scena, uscire/ di scena, di scena
E poi in un altro componimento, intitolato Testamento del 1993:
Ho letto il destino ma non ho capito niente. / Ho conosciuto solo i colpi e ci ho fatto l’abitudine / Perciò le lettere / cadono dalla mia bocca come denti. / Con un odore di sangue
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, a Ekaterinburg, si assiste ad un’ascesa della poesia; i giovani si interessano all’arte poetica e si assiste a un flusso di serate, incontri, spettacoli, pubblicazioni collettive e individuali.
All’università , nel febbraio del 1992, Boris conosce Kuzin, poeta affermato e giovane docente all’Istituto Minerario, il quale, nel suo diario, scrive del giovane Ryžij:
Ha una visione drammatica chiaramente espressa, un pensiero fantasioso, libero possesso della forma poetica (con l’eccezione di qualche negligenza nella rima). Ma è ancora molto giovane e incontrollabile.
Iniziano per Boris le pubblicazioni di poesie su riviste locali. In seguito, conosce anche Lobantsev, un poeta vicino a Evtušenko che lo sostiene con tutti i mezzi disponibili, principalmente con vari tipi di raccomandazioni. È Lobantsev a nominarlo nei vari circoli letterari, assicurando la sua partecipazione a varie incontri nella capitale, Mosca. Partecipa così al festival di poesia studentesca (1992) e si aggiudica il secondo posto mentre l’anno seguente vince la competizione. All’incontro panrusso dei giovani poeti (Mosca, 1994), dove viene mandato dallo stesso Lobantsev, Boris trova non solo il successo, ma anche l’amicizia di altri letterati.
Lo stesso Kuzin presenta Boris a Oleg Dozmorov (il poeta di cui è trascritta la poesia in apertura di questo intervento) all’inizio di ottobre del 1996.
Nel 1992 avviene la prima pubblicazione sulla “Rossìyskaya Gazeta” di alcune sue poesie; nel 1997 sono pubblicate nella rivista letteraria “Zvezda”; nel 1999 sulla rivista letteraria “Banner”; nel 2000 il poeta è stato insignito del prestigioso Premio Antibooker.
Nel 2000, l’unica raccolta edita in vita delle poesie del poeta è pubblicata nella famosa serie di edizioni poetiche “Autograph” col titolo E così via (ed è anche l’unica traduzione italiana delle sue opere).
Nel 1997 si laurea all’università e nel 2000 consegue il diploma di specializzazione e diventa Dottore in Geofisica presso l’Accademia delle Scienze Russe degli Urali; ottiene un lavoro come ricercatore junior nel laboratorio regionale di geofisica. Pubblica interventi in riviste scientifiche.
Sempre nel 1997 conosce a Mosca i due poeti più importanti del tempo ovvero Evgenij Rejn e Evgenij Evtušenko.
Irina, la moglie, è indietro di lui di un paio d’anni nello studio, per questioni di salute e per il congedo di maternità ma segue le sue stesse orme di ricercatrice.
Irina e Boris si conoscevano dalla quarta elementare quando a un campo di pionieri, a Boris fu chiesto di occuparsi di qualcosa (faceva parte dell’educazione del tempo incaricare i bambini di piccoli compiti utili alla comunità) e Boris scelse di “annaffiare i fiori” in un luogo dove non c’erano fiori. Questo colpì molto Irina. Poi si persero di vista e si ritrovarono alle superiori. Dopo il matrimonio, inizialmente vissero con i genitori di lui ma poi ebbero un loro appartamento non lontano. Preoccupazione costante di Boris fu quella di mantenere la propria famiglia quando aveva ben compreso che con la sola poesia non era possibile vivere.
Contemporaneamente al lavoro in ambito scientifico, Boris tenta di ricavare qualche soldo anche dalla sua passione per le lettere. L’appartenenza all’organizzazione degli scrittori non forniva denaro, a parte alcune opportunità di viaggio e altri sussidi occasionali. Così scrive in una poesia del 1994:
“Oh grande, potente / Aiutami a nutrire mia moglie e mio figlio.” (“Adesso è arrivato l’inverno …”)
Era necessario cercare qualcos’altro: Boris iniziò a collaborare per la rivista letteraria “Ural”, il cui redattore capo a quel tempo era Nikolai Kolyada, un uomo di teatro.
Nel 2000 stringe amicizia con lo slavista olandese Kees Verheul che gli permetterà di partecipare al 31esimo Festival di Poesia Internazionale a Rotterdam.
In tutto questo vortice di impegni, resta poco tempo per occuparsi del figlio. Tuttavia, con Artëm ebbe un rapporto simile a quello che aveva avuto il padre con lui. Gli leggeva ogni sorta di poesia e quando stette una settimana in Olanda per partecipare al suddetto festival, scrisse poesie per lui pensando a un viaggio da compiere insieme in Olanda.
Ti porterò Lego dall’Olanda, prenderemo e costruiremo un palazzo.
Puoi rendere indietro gli anni, una persona ma l’amore, quello che c’è, non finisce.
Me ne sono andato per sempre,
ma tornerò sicuramente – con te verremo sulle sponde dorate.
Oppure affitteremo un normale cottage estivo per l’estate, vedremo, in base ai nostri soldi.
Vivremo e saremo pigri fino alla neve.
Ti manderò, figlio, dall’Olanda Lego,
ne prenderai e costruirai un palazzo.
(“Ti porto i Lego dall’Olanda …”, 2000-2001)
Nonostante l’amore per il figlio fosse incondizionato, Boris nutriva un cattivo presagio come si legge da questa bellissima poesia che sembra quasi già annunciare un distacco definitivo.
Non alzarti, lo metto dentro di me
dormi, mentre le stelle d’autunno
splendono sopra il tuo capo
e ronzano i cavi elettrici umidi
gli occhi chiusi di Artëm
vedono un sogno dove io sempre sono tornato
per non andarmene mai più
e la stella autunnale splende
Il viaggio in Olanda contribuì a peggiorare la depressione e la dipendenza alcolica di Boris.
Lo stress patito fu tale che il padre dovette venire a prenderlo all’aeroporto di Mosca a causa delle sue condizioni precarie psichiche. A parte la sua lingua madre, sapeva parlare solo poche parole in un inglese scarso. Per il traduttore che lo rappresentava al festival, la poesia di Boris era chiaramente estranea. Dallo stress dovuto all’incomunicabilità che si era creata, si ubriacò in modo esagerato cadendo in uno stato depressivo profondo, tanto che la sua performance si rivelò estremamente infruttuosa. Dopo un tour nei locali notturni di Rotterdam, gli furono rubati soldi, documenti e una macchina fotografica mentre camminava per strada.
A Rotterdam Boris cominciò a scrivere un diario che è l’unica testimonianza in prosa da lui lasciata oltre ai carteggi che ebbe con altri scrittori, amici e soprattutto con la sorella Olja a cui era profondamente affezionato. Questo diario è molto importante perché è una riflessione sulla sua vita: il filo conduttore de “Il diario di Rotterdam”, la sua costante nota inquietante, è il senso di una possibile rottura familiare, cosa che già si stava realizzando a causa del suo alcolismo.
All’interno del diario ci sono dei bellissimi ricordi d’infanzia, come, per esempio, questo:
Quando ero piccolo, mia sorella mi portava al Parco della cultura e del tempo libero Majakovskij. C’era tutto: giostre, altalene di vario genere, gelati e zucchero filato, una piccola ferrovia, ippodromi e, infine, una ruota panoramica, anzi due, una più grande, l’altra più piccola. Lì si suonava musica, sempre lo stesso genere di dischi. I bambini camminavano per mano con gli adulti e sorridevano. Potevi bere l’acqua della fontana, sembrava in qualche modo particolarmente gustosa. I fiori crescevano sulle aiuole. Gli zingari vendevano dolci fatti in casa in grani d’oro brillante, anche se mi era proibito mangiare questi dolci, ma era sempre permesso di comprare palline colorate con un elastico. Quando salimmo sulla ruota panoramica, Olja, tenendomi in braccio, mi mostrava in quale direzione fosse la nostra casa. Siamo saliti sopra il lillà, sopra i pini, quasi al cielo. Circa due anni fa, ho deciso di andare in questo parco con mio figlio, temendo che fosse chiuso per mancanza di redditività o per qualche altro motivo. Le mie paure erano vane. Dopo aver superato diverse fermate col tram numero 10, siamo passati sotto l’arco dello stile dell’Impero stalinista e, catturando l’odore familiare dei lillà, ho sentito una musica familiare. La stessa giostra, gli ippodromi, le altalene, una ruota panoramica, tutto è uguale, anche una statua di un poeta, solo che non ci sono ragazze e ragazzi sorridenti, non ci sono zingari che vendono sciocchezze. Il parco era incredibilmente vuoto, anche se le biglietterie funzionavano, le attrazioni funzionavano. La prima cosa che ho fatto è stata portare mio figlio alla ruota panoramica, per arrampicarmi sulle nuvole. Poi abbiamo guidato sul circuito, camminato, e per tutto questo tempo ho avuto la sensazione che stesse per accadere qualcosa.
Siamo tornati a casa. Ho capito che Toša si aspettava qualcosa di diverso e gli ho comprato un disco. Il ragazzo ha detto: ti amo, papà. L’ho preso e l’ho portato tra le braccia. Non è successo niente, ma mi è sembrato solo che proprio ora … Quando sarò vecchio, verrò in questo parco da solo, mi siederò su una panchina umida per la pioggia primaverile, ascolterò la musica rauca antidiluviana e aspetterò. Aspetterò che l’aria cristallina esploda e il parco si riempia di bambini che ridono, uno dei quali probabilmente sarò io. E se non succede nulla, un vecchio seduto sotto un lillà in un parco ricreativo vuoto sullo sfondo di una ruota panoramica congelata – almeno è molto bello.
Purtroppo negli ultimi anni della sua vita non fu molto presente nella vita del figlio. Quando era ubriaco (molto spesso) non voleva mostrarsi ai suoi familiari e restava a dormire fuori presso amici o sulle panchine identificandosi in tutto e per tutto nel suo antieroe poetico, il barbone o il musicista di strada, come si legge nella bellissima poesia Il mare :
Nei quartieri mesti e remoti, che al mattino sono umidi e vuoti, dove i lillà e i fiori paiono buffi e pietosi, c’è un palazzo di sedici piani, e lì sotto c’è un pioppo, e un acero inutile e stanco anela al cielo vuoto; sotto il pioppo c’è una panchina. S’era addormentato lì la mattina a sognare il mare Dima Rjabokon lo scrittore.
Aveva ceduto e bevuto troppo: voleva partire da solo per andare al mare, perché è il limite del dolore. Aveva imprecato e sbraitato quella mattina, finendo a russare sulla panchina.
Ma il mare blu, l’azzurro mare, l’aveva raggiunto da solo e, mattiniero e familiare, gli aveva sorriso luminoso. E pure Dima aveva sorriso. E pur immobile, calvo, sdentato, supino davvero era corso verso il mare turchino.
Correva e vedeva qualcuno sul litorale, sulla riva d’oro del mare.
Ma sono io, io pure che non so raggiungere il mare: sull’altalena dondolavo e mi sono addormentato, dondolavo con i cespugli ai lati. Nei quartieri mesti e remoti, che al mattino sono umidi e vuoti.
e in questa poesia dove è protagonista anche la musica:
La sacca ai piedi, in un buio androne
suona il sassofono la notte intera
mentre nel parco dorme l’ubriacone
disteso sul giornale della sera.
E se non muoio, dico per davvero,
un musicante diverrò io pure,
con la camicia bianca e il fiocco nero
per la strada suonerò le notti intere,
così che dorma, ebbro fino in fondo,
l’ubriacone e sorrida al firmamento;
dormi senza curarti più del mondo,
e sia musica, musica soltanto
Si manifestano anche altri problemi di salute; per esempio, il distacco della retina dell’occhio sinistro. Non vedeva bene da quell’occhio. Boris credeva che questo fosse un lascito della boxe, perché i problemi con l’occhio iniziarono quando stava ancora boxando. E il dolore si aggravava col gelo.
Nel 2000 insieme a un gruppo di amici indice un concorso letterario. Il concorso ha come tema “L’eternità” e lo sponsor è un’impresa funebre che lavora il famoso marmo degli Urali. Un amico che fa parte della giuria muore tragicamente cadendo dalla finestra; questo episodio sconvolge molto Boris aggravando il suo stato depressivo. Dentro di sé cova il timore di aver esaurito la vena poetica proprio ora che comincia ad essere conosciuto dopo la prima pubblicazione nel 2000 della raccolta di poesie E così via e la vittoria di alcuni premi; teme di non poter rispondere alle aspettative del pubblico. A questo timore si unisce il senso di esasperazione dell’ideale romantico del poeta in cui si era in un certo senso immedesimato legato anche al destino drammatico della città di Ekaterinburg ( la città dove morirono tragicamente i Romanov) e quelle che lui definiva “le fantasie infernali del popolo degli Urali”. Forse tutti questi elementi lo condussero a meditare una via tragica.
Nove giorni prima di morire, Boris scrive all’amico Kees che abita in Olanda:
penso che non sia una questione di generazioni (tornando a Tjutčev), ma dell’atteggiamento di una persona nei confronti della poesia in generale. Per te e per me, Tjutčev (come Ovidio) è vivo, tanto quanto lo era in realtà. Per altri, è un uomo morto, ma in Russia amano i morti con uno strano amore: possono uccidere due vivi per un morto.
Boris stava male tra marzo e aprile del 2001. Un medico che lo aveva preso in cura gli aveva dato nuovi antidepressivi; aveva preso le pillole quasi fino a maggio e la crisi sembrava essere finita ma stava seduto a casa tutto il tempo, sentendo dentro di sé che qualcosa doveva accadere.
Possiamo ricostruire l’ultimo giorno di vita di Boris se facciamo conto di scrivere un diario al suo posto:
6 maggio 2001. Sono andato a passare la notte con i miei genitori, perché Irina partiva presto la mattina, non potevo svegliarla. Quella sera eravamo in quattro amici: E. Tinovskaja, A. Vernikov, il giovane D. Tetkin. Ero stanco di ciò. Vernikov è stato il primo a partire alle otto. La mamma è passata parecchie volte. Il resto degli amici è andato via dopo un’ora. Sono uscito per salutarli all’ascensore. Sono tornato a casa, dopo le dieci ho chiamato Dozmorov, ho chiacchierato per circa un’ora, ho riso. Sono tornato dai miei genitori, ho parlato a lungo con mio padre di questo e quello. In particolare, sull’acquisto di un’auto. Con mia madre ho parlato di Artëm. … Ho chiamato Irina, pensando in continuazione al premio di San Pietroburgo “Palmira del Nord”, ho chiamato Kušner, Verheil, mi hanno rassicurato dicendo: “riceverai sicuramente questo premio”. Mi sono lamentato con mia madre: non penso a nient’altro. Ho parlato con mio padre fino alle tre, finché non ho preso il fenazepam, un ansiolitico. Ho chiesto a mia madre: se puoi, siediti vicino a me. Si è seduta accanto a me nel letto.
Sembrava addormentato. La madre, verso il mattino, se ne andò. Ma tra le 4 e le 5 Boris si alzò e si impiccò sul balcone con la cintura del suo kimono. Era il 7 maggio 2001.
Come Lermontov, poeta e scrittore dell’Ottocento che Boris amava molto, perito in un duello, abbandona questa vita all’età di ventisette anni sfidando la morte fino all’ultimo momento.
Ciò che lo accomuna al poeta ottocentesco sono alcune caratteristiche come l’inaccettabilità dell’ordine sociale, la visione del male nascosto nell’ordinario e nel quotidiano, l’impotenza del suo desiderio di cambiare il mondo in meglio e di conseguenza l’abbandono a una forma di fatalismo che, anche in passato, spesso è stata una caratteristica della cultura russa.
In una serata di ricordo di Ryžij, l’amico e poeta E. Rejn disse:
La poesia è, per così dire, una spiegazione di ciò che, in sostanza, non può essere spiegato. Perché senza di essa (la poesia) non è chiaro perché e per cosa vivere; il tempo non è chiaro, sia le cose grossolane che le questioni filosofiche sono incomprensibili. La poesia di Boris Ryžij. è una speranza per una nuova resurrezione della poesia. Era un uomo istruito, un uomo dal pensiero profondo, e allo stesso tempo portava in sé tutta la tristezza, il destino, la tragedia del tempo, e la pagava.
Il 10 maggio 2001, il giorno del funerale di Boris, cadde la neve, faceva freddo e c’era molta gente.
Ryžij fu uno degli ultimi poeti di una generazione che comprendeva la poesia come un’impresa spirituale. Nelle tue poesie tutto è chiaro, concreto, oggettivo, puoi toccarlo, concreto e profondo allo stesso tempo. Nella sua poesia c’è quella precisione, quel grado di affidabilità che raramente si trova.
Il premio “Palmira del Nord” fu assegnato a Ryžij. poco tempo dopo la sua scomparsa. Andò il padre a ritirarlo. Il padre gli sopravvisse tre anni. Troppo il dolore e troppo debole il suo cuore malato.
La poetica : temi e approfondimenti
Nella poesia di Ryžij ci sono immagini e temi che ricorrono spesso, quasi come una musica ossessiva o meglio come un universo da comprendere su cui il poeta indaga incessantemente.
Lo scenario in cui si muove la sua poetica è quasi sempre la sua città Sverdlovsk e in particolare la periferia dove lui viveva Vtorčermet. Ryžij non descrive le strade o i monumenti, narra di alcuni ambienti come i giardini condominiali, i parchi pubblici, le panchine, i cinema, i tram, le piazze e li riempe dei suoi personaggi, il poeta, l’ubriacone, il barbone, il poliziotto, il teppista, la ragazza fidanzatina, personaggi di finzione e reali allo stesso tempo come ad esempio il padre o la madre, gli amici e la moglie. Il confine tra finzione e realtà, tra elemento favolistico e testimonianza sociale è sempre molto labile e sempre le sue liriche necessitano di un’interpretazione approfondita.
È fondamentale considerare che Boris viveva il disagio di uno sradicamento, di un’operazione pilotata dall’alto in cui la cultura era stata privata del suo contesto condannandola alla distruzione. In un certo senso, creando un suo immaginario fatto di luoghi simbolo, Ryžij. ha fatto un tentativo di ripristinare un contesto, di dare un ordine al caos creando un mondo artificiale.
Vtorčermet – Sverdlovsk
Esclusi alcuni viaggi a San Pietroburgo che amava profondamente, a Mosca e un soggiorno a Rotterdam per un prestigioso festival poetico, Boris non lascia mai la sua amata Sverdlovsk come continua a chiamarla anche dopo il 1991. Ryžij ama profondamente la sua città, in particolare ama la periferia dove vive. Scrive di essa:
La amo come uno studente povero che scappa da scuola e raccoglie mozziconi di sigaretta profumati d’autunno nel vicolo dove i meli perdono le foglie.
La amo come un bullo che ha vinto un quarto di mazzo da un vicino su una tavolo grazie a un mazzo segnato.
Amo le sue fabbriche… Amo il suo cielo sporco.
Immaginando il quartiere di Vtorčermet negli anni ’90 possiamo vedere i cortili, i palazzi anonimi, le scuole che non avevano un nome ma solo un numero, la povertà diffusa ovunque, una gioventù abbandonata al destino di cadere preda delle dilaganti bande mafiose, un’altissima incidenza di suicidi tra i padri di famiglia a causa della perdita improvvisa del lavoro, l’alcoolismo diffuso anche tra i giovanissimi e il conseguente abbassamento della aspettativa di vita (fino a 59 anni per gli uomini alla metà degli anni ’90). Queste le conseguenze economiche e sociali ma ben più gravi erano state le conseguenze a livello psicologico. Non a caso, Boris e Irina decidono di sposarsi il giorno seguente la dissoluzione della nazione in cui erano vissuti fino a quel momento. Una sfida giovanile o il segno di un nuovo inizio? Non lo sappiamo, sappiamo però che le promesse di un mondo migliore furono sicuramente disattese.
Ma torniamo a Vtorčermet e ai suoi blocchi di cemento.
Il poeta offre ai suoi lettori l’opportunità di sentire e vedere tutto da queste finestre scomode, grigie e spalancate delle case squallide di Sverdlovsk, con una forza così artisticamente perfetta simile a quella di Andrej Tarkovskij nel film “Stalker”, dove quello che può apparire terribile e brutto ad una visione superficiale in realtà il poeta lo definisce in altro modo, ovvero, per lui, “la bruttezza è la bellezza che non ha trovato posto nell’anima”. Vtorčermet appartiene, per Ryžij a quei luoghi fisici e immaginari riconducibili a una “zona” di tarkovskijana memoria che, al di là della sua bruttezza oggettiva, costituisce il luogo più autentico in cui è possibile riconoscersi come essere umani in un mondo dove tutte le regole sono state sovvertite.
Scrive in una poesia del 1998:
Il sole incombeva sulle fabbriche e le betulle diventarono nere. … Ho vissuto qui, approfittando delle libertà
per la morte, per l’autunno e per le lacrime.
Ma la poesia più celebrativa della sua città è sicuramente questa, di cui bisogna cogliere una sottile ironia:
Da Sverdlovsk con amore
Quando le parole di questo poeta transasiatico
avranno assunto smalto paneuropeo,
dimenticherò la mia favolosa Sverdlovsk
e il cortile della scuola tra i rottami di Vtorčermet.
Ma in qualsiasi aria debba rarefarsi il mio ultimo respiro,
che sia nell’afa di Parigi
o nel freddo di Londra,
vi chiedo di seppellire le mie povere ossa
in un anonimo cimitero
di Sverdlovsk.
Non in un disegno non privo di bellezza
e tuttavia in posa artificiale ed artistica
ma perché là giacciono i miei compagni
con i loro profili di marmo e rose.
Su campi di neve al vetriolo blu,
dopo aver lasciato la scuola superiore
sono caduti col rame nel cranio
come primi soldati della Perestrojka.
Si spieghino le sirene della fabbrica di rottami di Vtorčermet
e che a fondo fischino quelle dell’impianto di fibre sintetiche.
E che la donna che allora non era con me
apra l’album e fumi a pieni polmoni.
Aprirà questo album azzurro
in cui i nostri volti sono caldi di futuro
l’album azzurro in cui siamo vivi,
noi feccia della terra: banditi e poeti.
Non solo Sverdlovsk, ma anche gli Urali i monti che incombevano sopra la città sono avvolti da un alone mitologico.
Scriveva in una poesia del 1995:
Ural – Ho paura, paura negli Urali. Sui fili ci sono corvi tristi, come le note che non sono state suonate
su di esse marcia – nel cortile di fronte – un funerale?
Camminavano così silenziosamente, lavoravano e vivevano.
Oh, dolore – e non puoi evitare il dolore.
Febbraio, le stelle nel cielo, come estranei, arriverà la primavera e io andrò al mare.
Lascia che il vento mi soffi i capelli con quella fedele – unica – mano.
Onde di birra, sera dagli occhi marroni.
Non andartene, cara, resta con me non lasciarti andare – amico – tieniti le spalle – negli Urali sordi alla follia e alla maldicenza.
Oh Dio non mi hai dato la vita eterna dammi un cuore, descrivilo con amore.
Poeta, uomo, bambino
In un’intervista gli fu chiesto di parlare di sé:
Qual è stata la tua infanzia? Di dove sei? – Infanzia ordinaria, sovietica. Come pioniere, sono partito in cravatta rossa fino alla fine, volevano già accettarci nel Komsomol, ma qualcosa è cambiato. <…> Ho vissuto a Vtorčermet, ho studiato in una scuola normale. La scuola era assolutamente terribile. Ho studiato molto male e mia sorella ha scritto saggi di letteratura per me, lo ricordo di sicuro. Appena ho finito la scuola sono andato all’Istituto minerario, non potevo andare da nessun’altra parte. Mentre studiavo all’istituto, ha contribuito all’organizzazione di un’associazione letteraria. Esiste ancora. Per non andare nell’esercito, dopo l’istituto sono entrato in una scuola di specializzazione.
Di sé scrive anche in questa poesia del 1997:
La giovinezza mi ha promesso molto.
Avevo vent’anni. Questo è stato l’inizio.
Sono stato stupido e non è un segreto.
Questo – volevo essere un poeta, ma non molto,
perché non guadagnano i poeti per comprare i fiori a qualcuno.
Così sono diventato un ingegnere minerario,
ho ricevuto un diploma con lode.
Non cammino nelle piazze autunnali,
i versi non vengono registrati nel diario.
Né ascolto in ristoranti pieni di fumo violinisti blu,
contando i soldi in tasca, con enormi spalle inarcate.
Quindi un poeta non è uscito da me e non uscirà mai.
Signori, cosa ne dite? I signori bevono e piangono in silenzio.
Bevono e piangono, abbracciano le ragazze,
bevono ancora e tacciono ancora, la testa endeca-volte scuotendo , sillabano urli.
(“La gioventù mi ha promesso molto …”, 1997)
Per conoscere Boris Ryžij dobbiamo calarci nella sua realtà: questo vale un po’ per tutti i poeti ma ancora di più per il nostro autore che, incapace di vivere nella quotidianità, si era creata una realtà letteraria dove convivevano sia il poeta che l’uomo.
La Russia è un vecchio film in fondo.
Pensa e ripensa, è la stessa cosa:
i veterani stanno sullo sfondo,
giocano a domino sotto casa.
Quando brinderò e morirò
i lillà ondeggeranno al vento,
per sempre il bimbetto sparirà
che in cortile correva un tempo.
Rimetterà in tasca i confetti
dal ciglio canuto il veterano,
pensando: ma dove è finito?
Sono sparito in primo piano
Il tempo e lo spazio sono nemici di Boris perché egli non trova collocazione. Si rifugia nel passato consapevole però che non può essere vissuto ma solo evocato: Il presente sfugge di mano, il futuro è indecifrabile e coronato di morte.
Quanta musica c’era, di tutto c’era tanto,
al cinema il biglietto si trovava spesso.
La ragazzina perbene col teppista sul tram rosso
non andavano in nessun posto.
Ce n’è rimasta poca di musica oggi,
di passeggeri pure: i tram sono in rimessa.
Dal cinematografo usciamo nella pioggia,
facciamo i primi passi
lungo il viale della vita. Dell’estate,
e di felicità parlava il film, non di guai.
Platea, ultima fila, birra e sigarette.
In prima fila io non ci andrò mai.
Il poeta non può stare in prima fila perché non appartiene a quel mondo che appare agli occhi di tutti. L’uomo e anche il poeta stanno nelle retrovie perché il pensiero è sempre più lento dell’azione e come scrive in un’altra poesia:
Esco dal cinema e c’è già la neve,
un barbuto col badile la smuove,
il tramvai rosa fende l’aria lieve,
il dodici, no, il nove, il diciannove.
Il mondo intero è mutato all’istante,
ma io sono sempre io, che devo fare?
(…)
Il mondo senza più regole né punti di riferimento è cambiato troppo velocemente, dove può rifugiarsi il poeta? Nei cinema, nei tram, nei parchi culturali, in tutti quei luoghi che ancora mantengono le caratteristiche di un’epoca che non esiste più. Ma sono rifugi fittizi e di breve durata: c’è sempre un momento in cui occorre “uscire fuori” e la neve o il vento dell’autunno che sbatte le foglie sul volto del poeta come un turbine, fanno capire che il tempo è cambiato in modo definitivo.
Resta la possibilità di sparire dentro una poesia.
E sembrava perfino che non c’ero.
Probabile che mi fossi trasformato in zero.
Me n’ero andato a vivere in una mia poesia –
spento sulla cenere come una lingua di fuoco.
Il senso di estraneità a tratti pare una forma di sdoppiamento. Ciò che è fuori sembra agli occhi del poeta non reale, sotto l’effetto di un sortilegio che ha mutato i connotati della realtà magicamente come si legge in questa poesia bellissima dove la neve, come in altre poesie, svolge questa funzione magica:
Mi avvicino alla finestra come di nascosto,
come se fossi un altro, finto:
com’è caduta distratta, casuale
dal cielo, bianca e scricchiolante la neve
E ancora in questa poesia è sempre protagonista la neve che, osservata dalla finestra, di nuovo è il segno di un cambiamento e di un passato evocato che non può ritornare in alcun modo.
…Nevosa e fragile sino al dolore
Questa mattina, il cuore sensibile
Si mette in guardia, coglie i suoni.
Una distesa bianca oltre la finestra –
Mi ci fiondavo da ragazzo
Dentro al mio cappotto indossato in fretta.
Con la mia sciarpa azzurra mangiata dalle tarme
Ho gonfiato palloncini colorati.
… risuonavano slogan e discorsi…
Dove sono le vostre canzoni, le bandiere rosse
E voi, ubriachi, bellissimi,
che mi portate sulle spalle?
(“7 Novembre”)
E in questa poesia che introduce anche il tema della compassione che approfondiremo più avanti:
Adesso che la neve è caduta
dimmi se viviamo ancora
o se siamo sepolti?
No, non dire niente: in terra, in cielo o nella tomba
a cosa mi serviranno le parole?
Non ho ricevuto dal Signore né il mare rosato
né la forza di vendicarmi dei nemici
ma la facoltà di piangere sul dolore altrui
e di sorridere con gioia alla loro felicità.
Soli al mondo, bagnati fino alle ossa
alcuni soldati lanciano palle di neve.
Hanno lo stesso candore sotto le loro ali d’angelo.
Non sono colpevoli di niente, come i bambini.
Boris è consapevole del suo difficile rapporto con la realtà e se ne rammarica perché capisce di essersi perso i momenti di felicità:
Oh, per quanto ho vissuto – non mi sono accorto
né dei ramoscelli, né delle foglie, né degli steli.
Io, entrato in conflitto con me stesso,
di fronte a me ero piccolo e debole.
Un senso di colpa gravava sul suo petto soprattutto dopo che si era sposato con Irina e che aveva avuto un figlio. Capiva che non riusciva ad amarli come avrebbe voluto e così la stessa sensazione di mancanza di amore la provava con tutti gli altri essere umani con i quali entrava in profonda empatia nutrendo una sincera compassione.
In una delle ultime poesie che scrisse questo senso di colpa diventa il motivo della morte.
Indovina zingara, per un soldo di rame,
spiegami di che morrò.
Risponde la zingara, dice, tu morrai
quelli così non restano al mondo.
Tuo figlio diventerà un estraneo, estranea la tua donna,
ti volteranno le spalle gli amici-nemici.
Che cosa ti ucciderà, giovane? La colpa.
Ma tu la colpa custodisci.
Di fronte a chi la colpa? Di fronte a chi è vivo.
E ride, negli occhi mi fissa.
E dal bazar echeggia un motivo
della mala, il cielo si schiarisce.
L’eterna insoddisfazione e l’impossibilità di realizzare ciò che era chiamato a realizzarsi costituiscono la sostanza del disagio vissuto da Boris come se il poeta, per quanto avesse cercato di entrare nel mondo adulto, anticipando le tappe, fosse rimasto bambino, con una vita in fieri ma non realizzata.
Ciò che lo rende grande è il sentire questo dramma non solo come personale ma come collettivo, generazionale.
Boris Ryžij è il poeta delle antinomie. Solitudine e vicinanza, incapacità di vivere nel mondo reale e creazione di un mondo artificiale poetico con il quale avrà sempre maggiori difficoltà a mantenere le distanze sono il segno distintivo della sua poetica.
In lui ci fu una rara combinazione di coraggio e tenerezza, impetuosità e gentilezza, freddezza e sentimentalismo. Ma, a un certo punto, il suo mondo artificialmente chiuso iniziò a crollare dall’interno.
Cammino nel passato, vago come un archeologo.
Trovo un adesivo, un marchio, un frammento di vetro. …
Sei intatto, vivo, abbastanza reale, tutto pieno di quella musica piuttosto triste.
E le nuvole volano via, è presto sera, e la mia mano tende ad incontrarti.
Ma i cortili e gli edifici si dissolvono nell’oscurità.
E impallidisci nell’oscurità – la mia creazione, chi ho vissuto e chi vivo in un’epoca lontana.
Nella percezione di sé e nel comportamento, sono chiaramente visibili i tratti dell’infantilismo e della reale mancanza di difesa, così come si può leggere in una sua poesia scritta per Capodanno:
(…) e sotto l’albero vivrò. Mi stabilirò lì con una tranquilla fiaba a metà. … portate una briciola di pane e versare un ditale di vodka.
Boris cerca rifugio nella propria infanzia che sembra essere l’ultimo appiglio o forse una via di fuga da un mondo adulto per lui incomprensibile e crudele.
Dove si spezza la memoria, un vecchio film parte,
una vecchia musica suona una certa melodia…
Salire sul tram 10, scendere, passare sotto l’arco
staliniano: tutto com’era, era un secolo addietro.
Qui mi prendevano per mano, qui mi tiravano su in braccio
mi facevano vedere un film nel cinema teatro all’aperto.
L’arte mostrava gli stessi sentimenti,
lo stesso parco di divertimenti, un ragazzino in braccio.
È l’interminabile passato, illuminato fiocamente,
impedisce al futuro di prendere slancio.
La parola “passato” per lui non aveva solo una connotazione personale. Conosceva e apprezzava la poesia del passato. Oltre ai classici, apprezzava i poeti della Grande Guerra Patriottica (principalmente Boris Slutsky) e i poeti degli anni Trenta (più di altri, Vladimir Lugovskoy).
Dal passato, poi, ha seguito un secondo filone, che si richiama a grandi maestri come Nekrasov, intendo il filone della poesia della misericordia, della compassione, quando la sofferenza di un altro preoccupa il poeta più della sua.
Suo padre raccontava che, a proposito della miseria in cui versava gran parte della Russia negli anni ’90, Boris disse:
“È terrificante vedere un uomo con il volto di Gesù Cristo che fruga in un bidone della spazzatura in cerca di cibo. “
L’idea che il poeta soffra perché in un qualche si fa carico della sofferenza di un mondo, l’idea di sacrificio ed espiazione che ne consegue è un concetto radicato nella poesia russa come ad esempio in Mandel’štam. Lo stesso concetto lo ritroviamo espresso nell’idea di cinema di uno dei più grandi cineasti mondiali Andrej Tarkovskij, figlio del poeta Arsenij, uno dei più importanti poeti del Novecento. Ma rispetto al cineasta, a Boris mancava non tanto la spiritualità quanto la fede, come lo stesso denuncia in questa poesia:
Dettami poesie d’amore per torcere un po’ la mia anima,
il mio cuore è freddo, malvagio, può esplodere con una battuta inaspettata.
Dimmi parole semplici per farmi girare la testa.
In un parco umido con teste grigie, sorridendo, faccio trasalire i ragazzi.
Sono sorpresi: quanti anni hai?
Tu, fratello, sei un poeta per natura.
Ti è successo tutto e non c’è prezzo per la tua storia.
Sorrido dopo aver bevuto un bicchiere per buona fortuna, e lo nascondo in tasca,
Stringo le mani che lavorano, fluttuando via, ondeggiando nella nebbia.
Punto tutte le “e”.
Mi diverto all’inferno per le bugie ma c’è un posto in paradiso – per la fede nella mia chiamata. (“Dettami poesie sull’amore …”, 1999)
La poesia è un rifugio accogliente, ma per certi aspetti, la musica le è superiore perché è il massimo simbolo di libertà e può rinunciare anche alle parole.
È passata la sbronza, ma il mondo non è cambiato.
È iniziata la musica, sono finite le parole.
Un motivo con un altro si amalgama
(strofa davvero ambiziosa).
… Ma forse le parole non servono affatto
per dei tali – che tali? – cretini…
Sotto nuvole blu e azzurre
Mi alzo in piedi e allargo stupidamente le braccia
Ricolmo di musica.
Il verso deve essere asciutto, essenziale non obbligatoriamente deve rispettare una rima ma una musica e un ritmo interiore.
La parola è sempre comunque un compromesso mai la verità. Il silenzio e le pause, come nella musica, spesso sono più cariche di significato.
Che cosa tacciono le pietre grigie?
Perché è sorda al silenzio
La terra? La loro pesantezza mi è così familiare.
E per quanto riguarda il verso –
Nel verso la cosa più importante è il silenzio, –
Se le rime sono giuste, non sono giuste.
Cos’è la parola? Solo l’attesa
Di una quiete eloquente.
Il verso si differenzia dalla prosa
Non solo perché è piccolo e solo.
Io, la mattina presto, dalla pietra
Asciugo le lacrime con una mano calda.
Nell’ultimo anno di vita, Boris scrisse molte poesie dedicate alla moglie. I loro rapporti si erano deteriorati ma l’affetto era rimasto immutato, eterno, come si può leggere in questa poesia che ha in sé qualcosa di fiabesco, immagini di cieli e nuvole in viaggio che ricordano l’arte di Marc Chagall e gli amanti che si librano in alto:
Sopra case, case e case
Stanno sospese nuvole blu –
E lì resteranno con noi
Nei secoli, nei secoli, nei secoli.
Solo vapore, solo bianco nel blu
Sopra mucchi di lapidi…
Non scompariremo mai, da nessuna parte
Siamo più resistenti e più morbidi del granito.
Che si frantumino pure i nostri gusci,
geometria della vita terrena –
senti, baciami sulle labbra,
dammi la mano, stai con me.
E quando ci lasceremo
Abbandonati sulle tue ali
Solo vapore, solo bianco nell’azzurro
Blu e bianco nell’azzurro
Ryžij era consapevole che stava per accadere qualcosa di importante nella sua vita: l’immagine della morte lo perseguitava, la sentiva come inevitabile. E questo non lo si capisce solo dalla lettura degli ultimi componimenti ma anche dalle poesie degli anni precedenti se pensiamo che una delle prime poesie si intitola Testamento ed è stata scritta nel 1993.
Per concludere questo intervento, ho dunque scelto due componimenti come chiusa finale che hanno il sapore di un congedo. Il poeta esce di scena ma non prima di aver lasciato un’eredità estremamente preziosa.
Ricorderemo quel che ricordiamo e il dimenticato,
tutto quel che il dio bambino ci ha dato in regalo.
La cittadina dove abbiamo amato,
la cittadina persa tra le nuvole.
E se potessimo riavvolgere la bobina
indietro, tu vedresti
coprirsi di polvere sulla mia tomba
i fiori gialli morti.
Lì sono morto, ma chi è vivo sente il chiasso
degli uccelli, e l’alba prende fuoco
sui cespugli dei ciliegi selvatici rossi.
Vano è tutto quel che è stato dopo.
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Ringrazio per tutto. Per il silenzio.
Per il brillare di una stella che litiga con l’oscurità.
Ringrazio per mio figlio, per mia moglie.
Per la musica dei ladri dietro la parete.
Ringrazio perché, per essere un ospite sgradito,
sono ancora piuttosto tollerabile –
e per il cappotto in corridoio mi hanno inchiodato
e hanno issato il mondo intero sulle mie spalle.
Ringrazio per le filastrocche dei bambini.
Non per l’attenzione, al contrario, per la pazienza.
Per l’autunno. L’infelicità. I peccati.
Per questo rimpianto ultraterreno.
Per Dio, e per i suoi angeli.
Per ciò a cui il cuore crede, e la mente conosce.
Ringrazio, perché non esiste
nulla di simile al mondo
Per tutto, per tutto. Per il fatto che non posso,
ricordando il dolore di qualcuno, vivere felice.
Sto davanti alla vita, addolorato, in debito,
e solo la morte è generosa e silenziosa.
Per tutto, per tutto. Per quest’alba offuscata.
Per il pane. Per il sale. Il calore del sangue natio.
Perché io vi ringrazio tutti,
e perché voi non sentirete nemmeno una parola.
E invece noi le sua parola l’abbiamo sentita e la ricorderemo come solo la poesia sa fare scendendo a patti con l’eternità.
BIBLIOGRAFIA:
Cartacea
Boris Ryžij, …E così via…, a cura di L. Salmon, Il ponte del sale ed., Rovigo, 2018
Poeti russi oggi, a cura di A. Alleva, Scheiwiller ed., Milano, 2008
Boris Ryžij, La neige couvrira tout, Cheyne ed., Dessevet, 2020
Web
Articoli in italiano e inglese:
https://samgha.wordpress.com/2010/07/05/touching-from-a-distance-ian-curtis-e-boris-ryzhy/
https://antoniobux.wordpress.com/2017/02/27/boris-ryzhy-9-poesie/
https://www.thewisemagazine.it/2019/11/09/cammino-eterno-dolore-tragedia-boris-ryzhy/
http://edizionidelgattaccio.it/tag/boris-ryzhy/
https://culturificio.org/boris-ryzhy/http://fascinointellettuali.larionews.com/boris-ryzhy-poeta-dettava-versi-damore/
https://ilmestieredileggereblog.com/2018/03/20/boris-ryzhy-vi-ho-amati-tutti-e-sul-serio/
https://it.rbth.com/rubriche/2013/05/06/dettami_versi_damore_23707
https://it.rbth.com/rubriche/russia_in_versi/2015/09/08/il-poeta-che-ha-amato-tutti_395489
https://antonioblunda.wordpress.com/2012/11/06/poesia-russa-contemporanea-boris-ryzyi-1974-2001/
https://ilsassonellostagno.wordpress.com/tag/boris-ryzhy/
https://poesiainrete.com/tag/ryzhy-boris/
https://www.pushkinhouse.org/blog/2020/3/24/boris-ryzhy-marta-biino
http://www.controappuntoblog.org/2013/01/19/boris-ryzhy-poet/
https://it.rbth.com/rubriche/2013/05/06/dettami_versi_damore_23707
https://www.frammentirivista.it/boris-ryzhy-poeta-dettava-versi-damore/
https://it.rbth.com/storia/83988-perch%C3%A9-gli-anni-novanta
https://www.studenti.it/storia-unione-sovietica-breznev-gorbacev.html
http://sakeritalia.it/sfera-di-civilta-russa/se-sei-cosi-furbo-perche-sei-cosi-povero-la-russia-degli-anni-90-rivisitata/
http://www.storico.org/europa_verso_comunita/vita_unionesovietica.html
http://bookblog.salonelibro.it/la-russia-degli-anni-90-il-grande-saccheggio/
Articoli in russo:
http://flibusta.site/b/429477/read
https://takiedela.ru/2019/09/zhizn-poeta-rizhego/
Filmati e registrazioni:
2021 – Ancora un anno senza incontri letterari in presenza?
È cominciato così questo secondo anno di pandemia, senza presentazioni, senza pubblico che si siede in libreria o in biblioteca per ascoltare letture, presentazioni, reading collettivi.
Comincia a mancare quell’atmosfera così particolare dove le persone puoi guardarle negli occhi e ascoltarle quando commentano e aggiungono considerazioni interessanti al tuo intervento.
E tuttavia un modo di suscitare l’interesse doveva pur esserci per continuare a esistere.
La tecnologia, ben felice di essere protagonista, si è presentata all’appuntamento occupando uno spazio virtuale, certo diverso da quello reale, ma non per questo meno importante.
Riluttante all’inizio, mi sono lasciata coinvolgere – perché non si può essere sempre contro le novità a prescindere – e così ho trascorso l’inverno e parte della primavera a raccontare storie, a leggere poesie e discutere di poeti sconosciuti davanti a una piccolissima camera, un puntino trasparente di cui talvolta mi dimenticavo l’esistenza.
Ci sono stati reading a più voci, occasioni per presentare l’ultima silloge collettiva di cui ho curato l’edizione, momenti bellissimi in cui ho avuto lo spazio per presentare gli autori che più amo come è stato nel caso del poeta russo Boris B. Ryžij.
Di tutto questo, segnalo i link in cui è possibile ascoltare gli interventi integralmente, in attesa che la situazione evolva e si possa tornare anche a presentare in pubblico.
Reading collettivo sul gruppo fb di “Segnalazioni letterarie” del 10 aprile
https://www.facebook.com/groups/263255641367606/permalink/488943988798769/
Diretta su Ryzij sul gruppo fb di “Condividendo poesia” del 9 aprile
Intervista 5 minuti con… sul canale youtube di Ctl editore del 5 aprile
https://www.facebook.com/groups/263255641367606/permalink/481412532885248/
“Presento l’autore con Chiara Rantini e Claudia Muscolino” sul gruppo fb di “Condividendo poesia” del 26 marzo
https://www.facebook.com/1382617413/videos/10219364317283643/
Diretta letteraria con Chiara Rantini e Barbara Gabriella Renzi sul gruppo di “Segnalazioni Letterarie” del 28 gennaio
Erboristeria delle lettere. Lacrime e poesia. Tre poesie di T. Tasso, A. Blok, J. Orten
Nel marzo del 2021, ho iniziato una collaborazione con alcune riviste e testate giornalistiche italiane nell’ambito del più ampio progetto, condiviso con alcuni amici scrittori, dell’Erboristeria delle lettere.
Qui trovate i link dove poter leggere il mio primo articolo in cui la tristezza viene vista con gli occhi della poesia e del linguaggio dei fiori.
https://www.corrierepl.it/2021/03/16/lacrime-e-poesia-tre-liriche-di-t-tasso-j-orten-e-a-blok/
INCONTRI “DONNE 2021”. Letture poetiche alla biblioteca Buonarroti
Bellissima serata di letture poetiche in biblioteca, il 17 marzo 2021.
Letture da “Un paradiso per Icaro” e da “Sulla soglia della lontananza“.
Felice di essere stata ospitata per questo evento, tenutosi on line, che si inserisce in una più ampia rassegna di poesia e arte presso la Biblioteca Buonarroti di Firenze dal titolo Marzo Donna.